Nel giorno dell’intervista non resiste alla tentazione.
È più forte di lei.
Se passa in atelier, le sue mani si mettono in movimento e iniziano a creare.
Sulle prime, paiono incerte. Poi prendono a muoversi veloci e lei sorride: “Quando torno qui, ringiovanisco di dieci anni!”.
Lei è Nadia. Questa è la sua storia.
La storia sua e delle sue - geniali, fantasiose, severissime, delicatissime, puntualissime - mani.
È il 1966 quando Nadia si presenta per la prima volta, diciannovenne, all’atelier di Gallia e Peter. Proviamo a immaginarcela. Porta i capelli corti come Caterina Caselli, che quell’anno ha sbigottito Sanremo cantando “Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu”. Deve trovare il modo di fronteggiare la tensione, Nadia, mentre cammina lungo via Monte Napoleone, dove è passata tante volte a sbirciare la preziosa vetrina al civico 3. Quasi ogni giorno un cappello diverso, magari assieme a una sciarpa oppure con dei fiori. Nadia ancora non lo sa, ma per cambiarlo si passa dalla portineria e ogni mattina un’addetta di Gallia e Peter si prodiga per l’operazione: saluta il portiere, ritira il cappello del giorno prima, posiziona quello nuovo. Lì in atelier (anche questo Nadia non lo sa ancora) ci sono, tra le altre, Nuccia,Clara, Giancarla. Diventeranno le amiche e le colleghe di una vita, anche se Nadia adesso si presenta per aiutare in magazzino e non le passa nemmeno per la testa di candidarsi come modista. Non le piace affatto cucire (così almeno crede). Eppure, sua nonna a sei anni l’ha mandata a studiare da una sarta che le ha insegnato a fare il sorfilo agli abiti, la cucitura a punti lunghi e radi per dotare di orli i tessuti ed evitare che si sfilaccino. Di una cosa, però, Nadia è senz’altro sicura mentre varca la soglia dell’atelier: desidera un lavoro manuale, che è quello che le riesce meglio e le offre più soddisfazioni. Le sue mani sono la sua più grande ricchezza. Sono il suo talento.
Quella mattina del 1966 Nadia affronta il suo primo colloquio, ma il lavoro vero e proprio arriva solo l’anno successivo, quando nel settembre del 1967 il suo “cuore matto” trova finalmente il suo posto in quella via centralissima di Milano. All’inizio è proprio in magazzino che Nadia comincia il servizio, fra scatoloni, tessuti, materiali, valigie, cassetti, accessori. Tra il magazzino e il laboratorio, la Signora Mariuccia ha fatto posizionare un banchetto. Le modiste vi si precipitano a turno, ci appoggiano i gomiti, si affacciano verso il magazzino e chiedono a Nadia di essere rapida e di allungar loro metracci, Gros grain e poi fiori, telette, materiali ornamentali per i cappelli. È arrivato un nuovo ordine e bisogna essere veloci perché alla consegna non mancano che pochi giorni.
Ognuna delle modiste di Gallia e Peter - Nadia lo capisce subito - ha una sua specializzazione e la custodisce con un tocco di gelosia. Giancarla, per esempio, è la più grande di tutte loro e la più ingegnosa nell’immaginare copricapi per le spose: tutte le clienti cercano lei e la Signora Mariuccia quando una figlia deve convolare a nozze e molte chiedono se sia possibile riparare quel vecchio pizzo recuperato in un baule in soffitta. A quel punto Giancarla scambia uno sguardo d’intesa con la Signoria Gallia, poi annuisce orgogliosa e si mette all’opera. Oggi Giancarla non lo ricorda più (la memoria dei fatti a volte è meno longeva di quella delle mani), ma chi l’ha conosciuta se la vede ancora davanti agli occhi. Intrecciando ciocche di capelli grigi usate come fili delicati, Giancarla ripara i piccoli buchi con cui il tempo ha consunto i materiali e restituisce i pizzi alle legittime proprietarie e a una vita nuova. Restaura tessuti antichi, come farebbe un restauratore di oggi, come farebbe un artista.
Per le spose e le loro madri, Giancarla e le ragazze della Mariuccia sono sempre le più attente, le più fantasiose, le più creative della città. Così, anche se all’inizio è la più giovane di tutte, Nadia inizia a osservare ognuna di queste colleghe talentuose. La Signora Mariuccia la tiene sotto la sua ala protettrice e la rende parte di quel gruppo di donne che ha iniziato a raccogliere intorno a sé sin dagli anni Trenta. Donne che, come lei e come sua suocera Cornelia, hanno fatto del proprio lavoro una forma d’arte, ma anche un riscatto femminile e l’occasione di creare una nuova comunità. Perché da Gallia e Peter, oltre alla Signora Mariuccia e alle sue dipendenti, c’è anche sua figlia Lia, che si chiama come la nonna paterna e diventerà una delle datrici di lavoro più amate che la Milano di quegli anni possa ricordare (a distanza di decenni, Nadia si commuove ancora pensando a lei: una compagna di percorso, una confidente, un sostegno, un punto di riferimento, un’amica). E poi ci sono la piccola Laura Marelli (che nei primi anni di lavoro di Nadia è ancora una bimba e tutti chiamano Lauretta) e la zia Cocca, una vita lunga cent’anni tondi tondi, zia di Laura dalla parte di papà, ma zia Cocca per tutti, anche per Nadia. Un’enclave al femminile, un laboratorio, un atelier, un posto di lavoro in cui si incrociano generazioni diverse. Ma pure un luogo dove le donne più affascinanti di Milano si recano per commissionare i propri cappelli e per conversare come nei Salotti parigini delle Dame del Settecento, in cui si celebravano eventi e feste ma, soprattutto, si gioiva della reciproca compagnia e della sottile, talvolta amorevolmente pettegola, arte della conversazione.
Da Monte Napoleone, passano le signore più affascinanti, seducenti, allegre, curate, moderne, bizzarre che frequentano Milano. C’è un’importante principessa araba; c’è la Signora Morou, che si dice che sia la donna più ricca dell’intero Giappone; e poi la Baronessa Blanc, proprietaria del Teatro Manzoni che alle ragazze di Gallia e Peter fa dono di biglietti omaggio per recarsi a teatro o al cinematografo; e ancora la bellissima Contessa Sisini, proprietaria col marito della Settimana Enigmistica e amante dei turbanti; la Signora Taccani, moglie di un famoso architetto e legatissima al suo cane; e ancora le signorine Nedda e Gigina Necchi, che in atelier possono venire con una passeggiata a piedi dalla loro residenza in via Mozart, la celebre Villa Necchi Campiglio dove ancora oggi i cappelli Gallia e Peter fanno bella mostra di sé nel guardaroba delle estrose sorelle.
Che sia per la Prima alla Scala o per le feste di carnevale, l’atelier, soprattutto in alcuni momenti dell’anno e in alcune ore della giornata, è in pieno fermento. Nadia se ne rende conto soprattutto quando inizia a lavorare alla vendita e in laboratorio. Lo decide un giorno Lia. A un certo punto, quando viene a mancare Mariuccia (che aveva un talento innato per relazionarsi con le clienti e farle sentire a casa regalando ai cappelli lo spunto finale che era il tocco inconfondibile di Gallia e Peter, il tocco della sua stessa eleganza), è importante avere nuove leve che accolgano le visitatrici dell’atelier. Nadia è tra quelle leve. Lavora sino alle otto di sera, si fa trascinare entusiasta dagli appuntamenti delle gran dame che, senza l’aiuto suo e delle colleghe, non potrebbero trasformarsi in vista di quegli eventi mondani così attesi, così preziosi, così importanti. Ogni sera, devono essere diverse, devono rinnovarsi, raccontarsi, dimostrare la propria personalità. Ed è qui che le ragazze della Gallia e Peter entrano in azione. Nadia cerca di far suo il mestiere. Nessuno si ferma ad insegnarle: l’arte della modista si impara sul campo, scegliendo i materiali, abbinandoli, immaginando, sbagliando anche. Non c’è una regola scritta, non esistono prontuari. Nadia si mette all’opera, studia i cappelli delle colleghe, ne osserva caratteristiche e finiture. In particolare, segue il lavoro di Giancarla e la sua cura delle spose. Talvolta esce dall’atelier e si reca direttamente a casa delle clienti. Come quando deve montare un velo da sposa sul diadema di una giovane figlia degli Orsi Mangelli. Il diadema è così prezioso che Nadia non se la sente di portarlo in giro per la città nelle belle scatole tonde della Gallia e Peter. Preferisce andar di persona a casa Orsi Mangelli, tra quei gioielli dal valore incalcolabile. Altre volte Nadia e le sue colleghe devono mettersi sedute per terra nel salone di Monte Napoleone. Capita quando viene commissionato un modello esclusivo di Gallia e Peter: un taglio a fazzoletto di sei metri di tulle, tre per ala, due angoli incrociati, tre modiste al lavoro in contemporanea. Solo pochissime signore, in città, possono permetterselo.
Ogni lunedì, Nadia prepara il piano della settimana. In media per un cappello ci vogliono anche due, tre giorni di lavoro. Si parte dalla forma di spaltrì, un foglio di paglia lavorato a mano che - data la forma - si indurisce con altro spaltrì e poi con la bisca, la colla per indurire il fusto. Sulla forma a legno lavorano invece i cappellai (anche se Gallia e Peter rivoluzionerà anche questa regola e a un certo punto saprà trasformare la forma stessa in cappello). La collaborazione tra modiste, sartorie, fornitori deve essere una macchina perfetta. Abito, guanti, scarpe, cappelli, borse, gioielli: tutto è visto nell’insieme e ogni singolo pezzo non è solo importante, ma fondamentale. Spesso tutto parte proprio da un certo taglio di tessuto che guida nella costruzione di un look in cui le scarpe possono essere rivestite con lo stesso motivo dell’abito. La Signora Mariuccia lo ha insegnato a tutte, coi suoi viaggi a Parigi dove acquistava modelli di Chanel, Givenchy, Dior per riprodurne a Milano versioni originali personalizzate e autorizzate con apposite etichette dalle grandi maison. Con la sua macchina a pedali Nadia diventa sempre più esperta. Proprio lei, che di cappelli non ne indossa mai perché trova che le stiano male al punto da rifiutare di provarli persino quando glielo chiedono le clienti più facoltose: “Signora, il cappello è perfetto, glielo assicuro. Ma se lo indosso io finirà per non acquistarlo, perché non ho la testa adatta. Non ho la testa da cappello”. Sin dalle origini Nadia ha questa diamantina convinzione: ci sono donne anche insignificanti che con un cappello diventano bellissime. Ma ce ne sono altre che, con il cappello, perdono di fascino. Per loro vanno trovate soluzioni diverse: è necessario percorrere nuove strade e ingegnarsi ancora di più.
Accanto a Cornelia (detta Lia), Nadia impara a imbastire e preparare i fusti, cosa di cui, a differenza di mamma Mariuccia, Lia adora occuparsi. Ha un estro speciale, Lia, una fantasia irruenta e irrefrenabile. Sa spingersi oltre e di questo talento farà dono alla figlia, trasmettendole la capacità di inventare dal nulla un cappello inatteso. È paziente. Una qualità, Nadia lo sa bene, che tutte loro devono possedere. Perché il lavoro le pone ogni giorno nella condizione di imparare qualcosa dinuovo, di prendersi il tempo necessario per apprendere e reinventarsi. La loro, in quegli anni, non è semplice esecuzione. È arte della malleabilità, della resistenza, dell’immaginazione, anche grazie alle straordinarie fibre naturali che scelgono per le loro composizioni. Gallia e Peter non bada a spese: tra le loro mani passano solo i materiali migliori in circolazione in quegli anni magici.
Quando i grandi stilisti prendono piede, per Nadia e le sue colleghe il lavoro inizia a mutare. L’atelier deve cambiar sede e si sposta in via Moscova. Il cambio di passo che il sistema moda richiede è un’accelerazione complicata da accettare. Ma, anche in questo caso, Gallia e Peter ha un asso nella manica. Accanto a Mariuccia, accanto a Lia, accanto a Giancarla, accanto a Nadia anche, la piccola Lauretta si è fatta grande. E di mamma Lia non ha ereditato solo il talento e la fantasia. Ha anche l’intraprendenza e la capacità di reinventare il mondo che la circonda. Lauretta, che ora è Laura Marelli, è un vulcano: ha respirato gli anni Settanta e nel decennio successivo ha capito che può iniziare a collaborare con i grandi stilisti senza piegarsi agli schemi ma sperimentando come solo le modiste possono fare. E capisce anche, Laura, una cosa che le sue ave forse non hanno percepito nella sua portata: quella di Gallia e Peter è una storia femminile straordinaria. Non è solo una storia di cappelli, è una storia di memoria, di rivoluzione, di arte. Così l’atelier diventa un laboratorio ancora più sperimentale e organizza mostre ed esposizioni che ripercorrono la storia del costume e richiamano intellettuali, giornalisti, studiosi, disegnatrici. Quello che l’atelier fa in quegli anni ricorda quello che Omega Workshop aveva inventato per il design nell’Inghilterra di inizio secolo. Anche lì le donne erano state protagoniste. Certo c’erano Roger Fry e Duncan Grant. Ma c’erano pure Vanessa Bell, sorella di Virginia Woolf, Dora Carrington, Nina Hamnett, Winifred Gill. E le artigiane che con loro avevano dato il via all’impresa.
È in quel periodo che Nadia inizia a intuire che la memoria del gesto, la memoria delle sue mani, è molto più profonda di quanto possa immaginare. Che quello che lei e le altre hanno condiviso in quegli anni supera di gran lunga le tendenze passeggere e ha creato qualcosa che si porteranno sempre dietro, anche ora che usano fibre artificiali, anche ora che lì fuori tutto pare diverso, anche adesso che i loro cappellini li realizzano per Lady Gaga, su richiesta di Moschino. Perché quando si riuniscono a tavola per condividere una teglia di lasagne, anche ora che sono delle signore di una certa età, i loro occhi restano quelli delle ragazze di Gallia e Peter. Quelle che han cambiato la storia della moda e quelle che hanno creato per sé stesse una vita di donne indipendenti e lavoratrici, aprendo la via a tante altre dopo di loro. Come avrebbe voluto Mariuccia Gallia e pure sua figlia Lia e, prima ancora, Angela Paschero - la mamma di Mariuccia, la nonna di Lia, la bisnonna di Laura. Tutte donne. E una memoria trasmessa tra loro. Di mano in mano. Chissà se nel 1932 avrebbe mai potuto immaginarlo di arrivare così lontano, Mariuccia, quando per la prima volta Gallia e Peter aveva aperto le sue porte e la prima cliente aveva messopiede nell’atelier che trent’anni dopo avrebbe accolto Nadia. “Prego, entri pure. Ora le racconto cosa facciamo qui dentro”.
Sarebbero state le sue mani, quel giorno, a parlare.